Dalla rigenerazione urbana alla coesione sociale fino alla Milano del futuro
OBR (Open Building Research) è un gruppo nato nel duemila, quando gli architetti Paolo Brescia e Tommaso Principi, entrambi in studio da Renzo Piano, hanno dato vita a un network con altri colleghi, generando uno scambio di idee tra Genova, Londra, New York e Mumbai. Con l’ingresso di Andrea Casetto come nuovo socio, oggi lo studio si consolida in un team di quaranta architetti con base a Milano nel quartiere di Brera.
Il lavoro di OBR intreccia la progettazione architettonica con temi profondamente legati a un senso di comunità, all’espressione delle identità individuali e alle relazioni tra le persone e con ambiente, costruendo una narrazione collettiva che unisce generazioni e culture diverse.
Tra tutti i progetti, due esempi emblematici sono il Museo di Pitagora, a Crotone, che celebra la fusione tra storia e contemporaneità, e il complesso residenziale di Milanofiori, dove la ricerca di un equilibrio tra gli opposti - pubblico e privato, naturale e artificiale, interno ed esterno - dà vita a spazi in continua evoluzione, un’architettura “relazionale” che interagisce con chi la abita in virtù degli scambi dinamici tra uomo e ambiente.
L’approccio di OBR non si ferma alla progettazione ex novo. Il lavoro di recupero e valorizzazione del patrimonio esistente, come dimostrato nei progetti del Palazzo dell’Arte della Triennale di Milano o del Museo Mitoraj di Pietrasanta, è un altro aspetto distintivo. Tra i tanti progetti ongoing di OBR vi sono l’Innovation Hub all’interno di MIND nell’area di Expo 2015 e Casa BFF in Viale Scarampo a Milano, mentre sta terminando un altro progetto molto atteso sempre a Milano: il Bassi Business Park, tra Porta Nuova e lo Scalo Farini.
Casa BFF. Photo courtesy of OBR
Partiamo proprio da Bassi Business Park, progetto che recupera una serie di edifici realizzati negli anni ’70 restituendo alla città un nuovo polo direzionale. Come si configura?
Il Bassi Business Park è un progetto urbano in una delle aree più sensibili e in corso di trasformazione di Milano nel quartiere Isola, tra Porta Nuova, Porta Garibaldi e lo Scalo Farini. L’idea è quella di ripensare alcuni edifici realizzati negli anni Settanta, recuperandone in parte la struttura, ma reinterpretandone la relazione con il contesto. Anziché demolire e ricostruire, abbiamo scelto di costruire sul costruito, valorizzando il patrimonio esistente, tramite degli “innesti” contemporanei che creano nuove relazioni tra le parti esistenti. Questo approccio ridefinisce il rapporto tra nuovo e preesistente, concependo l’insieme non come una somma di elementi distinti, ma come un organismo unitario in cui logica espressiva e logica costruttiva coincidono. Lavorando sul costruito, abbiamo maturato un’idea di architettura che fosse “già lì da prima”: mettendo insieme la doppia dimensione temporale del “già” e del “prima”, intendiamo un’architettura che appartenga al proprio tempo, ma che è percepita come se ci fosse sempre stata. Una sorta di ossimoro che sovrappone il presente con il passato e il futuro, unendo memoria e visione.
Bassi Business Park. Photo courtesy of Michele Nastasi
I brise soleil metallici che incorniciano la facciata svolgono un ruolo importante non solo dal punto di vista estetico, ma anche nella gestione della luce solare e per l’efficienza energetica dell’edificio. Qual è stato il processo progettuale nello sviluppo della facciata?
Fin da subito eravamo convinti che questo progetto non dovesse indulgere a delle soluzioni ostentate, ma essere significativo per la sua capacità di “fare città”. Nel caso specifico questo voleva dire essere parte di un contesto urbano vivo e vissuto, come quello del quartiere Isola. Per questo abbiamo immaginato un’architettura riflettente di giorno e cangiante di notte. Le ampie superfici vetrate delle facciate sono caratterizzate da un sistema di brise-soleil che riprende la varietà della gamma cromatica del contesto, coniugando valenze urbane e strategie energetico-ambientali.
Milano sarà sempre più una città policentrica: sembra un cantiere a cielo aperto e la rigenerazione urbana è un tema chiave della contemporaneità. Come vedete la Milano del futuro?
Forse dovremmo ripartire da una domanda: che cosa hanno prodotto gli interventi di questi ultimi vent’anni a Milano? Sicuramente una tendenza allo sviluppo in altezza. Ma come ha reagito Milano, la città della permanenza dei tracciati, degli allineamenti stradali, la città compatta con i suoi “palazzotti bassi”, con i suoi cortili e i suoi giardini interni? È vero che molti di questi interventi - pensiamo a Porta Nuova e Garibaldi Repubblica - sono ormai entrati nell’immaginario collettivo urbano come delle nuove centralità (soprattutto per i turisti e gli stranieri), ma a quale prezzo? Qualcuno sostiene che l’edifico alto, per sua natura, elevandosi in altezza dal tessuto urbano, non comunica con il suo contesto, anzi, emergendo a 360°, non ha più un fronte, un retro, un fianco, vanificando di fatto la gerarchia tra tipologia edilizia e città.
Ma c’è un’altra cosa che credo si stia facendo strada a Milano, che vuole superare l’individualismo “a-topico” di questi nuovi sviluppi in altezza: è la riscoperta dello spazio pubblico, la sete di urbanità, la fame di piazze. Questa considerazione mi fa venire in mente l’antinomia di Albert Hirschman in Private Interest and Public Action, secondo cui la storia umana sarebbe un continuo oscillare da un desiderio di soddisfazione individuale al desiderio (opposto) di soddisfazione collettiva, di condivisione. Verso questa riscoperta dello spazio pubblico va il progetto che stiamo completando in Viale Scarampo per Casa BFF, che di fatto inverte la relazione tra figura e sfondo, dove la figura che sta davanti è lo spazio restituito al dominio pubblico e lo sfondo che sta dietro è l’edificio. Ecco, questo desiderio di “fare città” credo rappresenti la grande opportunità di Milano.
Casa BFF. Photo courtesy of Nicola Colella
La rigenerazione urbana non riguarda solo gli edifici, ma anche le persone e le comunità. In che modo i vostri progetti contribuiscono a creare spazi che non solo migliorano l’ambiente ma che favoriscono anche la coesione sociale e il benessere delle persone?
Il mondo continua a cambiare sotto i nostri occhi, man mano che lo vediamo meglio. È un mondo fatto di interazioni, non di cose. Spesso ci rendiamo conto che la nostra immagine del mondo è parziale, parrocchiale, inadeguata. Del resto, non possiamo rispondere a nuove domande con vecchie risposte. Occorrono occhi nuovi per vedere il mondo, soprattutto quello che verrà. È riduttivo pensare allo spazio che “con-tiene” e al tempo “lungo-il-quale-avviene”. Crediamo più nei processi fatti di relazioni. L’architettura è sempre più interconnessa con altri mondi e discipline. Oggi l’urgenza è affrontare le sfide della contemporaneità, dai cambiamenti climatici alle regressioni civili, politiche e sociali. Quello che stiamo cercando di fare è unire le forze con alcuni maître à penser che ci hanno ispirato nel tempo, con cui avviare un dialogo a più voci e promuovere una più ampia riflessione sul vivere contemporaneo alla luce di molteplici prospettive, dalle arti alla scienza, dal paesaggio alla mobilità del futuro. Per esempio, con Roni Horn stiamo indagando il tema delle molteplicità delle identità nella comunità, con Michel Desvigne lo spazio pubblico come bene comune, con Giovanna Borasi gli spazi della cultura come luoghi partecipati, con George Amar il rapporto tra globalità e specificità locali. Con loro abbiamo formato una sorta di “team immaginario” per un progetto ideale ma non utopico, inteso come common task, non tanto l’obiettivo o il risultato, quanto un processo collettivo, evolutivo, cooperativo.
Incentivare l’housing sociale, riconvertire il patrimonio pubblico spingendo il private, il tema delle periferie e dello spazio pubblico: sono solo alcuni aspetti del nostro presente. Nel vostro lavoro, come affrontate il tema della resilienza urbana, soprattutto in un’epoca in cui le sfide climatiche e ambientali sono sempre più urgenti?
Facendo architettura, auspichiamo progetti che, benché di iniziativa privata, restituiscano qualcosa al dominio pubblico, cercando una maggiore urbanità e qualità sociale. Crediamo che la nostra responsabilità di architetti sia contribuire alla nascita di un nuovo modello di sviluppo a partire dal “bordo urbano”, inteso nel senso classico di limes, ovvero come l’inizio e non la fine – della città, creando spazi civici coerenti con le nuove aspettative di una comunità urbana sempre più in divenire. Del resto, è come viviamo che deve determinare il nostro abitare, non viceversa.
Se ascolti il luogo e la comunità che lo abita, spesso ti accorgi che c’è già tutto, che ottieni di più con meno, sottraendo piuttosto che aggiungendo, che non vuol dire minimalismo, ma eliminare il “soverchio” che impedisce a ciò che è di essere e a ciò che ancora non è - o non è più - di essere quello che è meglio che sia.
L’azione umana - e quindi anche il costruire - ha un impatto gigantesco sul nostro pianeta. Il tema è come passare da una visione riduzionistica che mette semplicemente l’uomo al centro, a una visione olistica che pone al centro la nostra relazione con l’ambiente. Dobbiamo ripensare il nostro approccio al mondo, non più adattando l’ambiente a noi, ma adattando noi all’ambiente.
Come architetti, vorremmo raccogliere l’invito lanciato da Gustav Metzger a lottare per la salvaguardia del pianeta e le future generazioni. Dovremmo fermarci a riflettere sul nostro ruolo di architetti, che non è quello di aggiungere qualcosa al mondo degli oggetti, bensì quello di “fare meno cose”, meno edilizia, più architettura. Credo che questo sia il nostro dovere morale. “Non abbiamo altra scelta che seguire la via dell’etica”, diceva Metzger. Per questo, quando finiamo un progetto, cerco di dire “meno di così non potevamo fare”.
Lehariya Jaipur. Photo courtesy of OBR
Cosa significa per voi progettare architetture che evolvono con chi le abita?
Significa riconoscere che la realtà è un gioco di specchi in continuo e vicendevole interagire di azioni e reazioni. Di conseguenza anche l’architettura è “relazionale”, fatta di relazioni, più che di oggetti. Per questo ci piace immaginarla come un organismo che agisce e reagisce con la realtà, che interagisce con i propri abitanti in virtù degli scambi dinamici tra uomo e ambiente, esprimendo ciò che è in costante mutamento, come un sistema aperto che lavora sul tempo, prima ancora che sullo spazio, accogliendo i futuri cambiamenti e adattandosi ai mutevoli desideri di chi la abita.
Ma ricordiamoci che nell’architettura che disegniamo ci siamo “noi”, soggetti e autori dei nostri modi di abitare, nodi di una rete infinita di relazioni in perpetua evoluzione.
Quando parli di architettura, ovviamente non parli di edifici, ma della vita delle persone che la abitano. Dunque, la vera domanda è: che potere ha l’architettura nel contribuire alla vita delle persone che la abitano? Ecco perché la nostra idea di architettura è fondamentalmente una relazione tra.
A cosa state lavorando ora?
A Genova stiamo realizzando Casa Vela, l’edificio pubblico più prominente verso mare all’interno del master plan di Renzo Piano per il Waterfront di Levante, con l’idea di creare un rapporto sensato con il mare a partire dalla consapevolezza che attraverso il mare tutte le cose sono intimamente collegate tra loro. A Jaipur nel Rajasthan stiamo completando il cluster Lehariya, un progetto di real estate che promuove una certa sostenibilità sociale coinvolgendo la comunità locale nel processo non solo costruttivo, ma anche ideativo, dalla piccola scala dell’artigianato alla scala urbana dell’architettura. A Milano a breve aprirà il Museo di Casa BFF che ospiterà la collezione d’arte contemporanea della banca, un luogo per l’arte aperto alla città, in continuità con la nuova piazza restituita al dominio pubblico. Sempre a Milano, nell’area dell’Expo, stiamo per realizzare per Lendlease l’Innovation Hub che rappresenterà il manifesto dei valori di MIND coniugando innovazione e senso di comunità.
A Pietrasanta stiamo completando il Museo Mitoraj, recuperando la struttura di un vecchio mercato coperto e creando una nuova piazza aperta alla città, attraverso cui far uscire il museo oltre se stesso.
A Prato stiamo sviluppando il progetto per il Parco Centrale che, oltre al parco urbano disegnato da Michel Desvigne, prevede un padiglione in sinergia con le attività culturali della città. Si tratta di progetti molto diversi tra loro, ma che condividono il medesimo approccio “sociale”, facendo appello alla creazione di nuovi modelli di spazio pubblico accessibile e aperto a tutti, in cui avere il piacere di stare e di ritrovarsi, celebrando un rinnovato rito di urbanità che si pratica mettendo insieme tutte quelle particolarità che siamo e in cui siamo così radicalmente iscritti.
Casa Vela. Photo courtesy of OBR
Tag: Rigenerazione urbana Architettura Interviste Milano
© Fuorisalone.it — Riproduzione riservata. — Pubblicato il 17 febbraio 2025