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Il progetto Alcova, raccontato da Joseph Grima e Valentina Ciuffi


Tips, Osservatorio — 27 maggio 2021

Una delle grandi novità dell’edizione 2018 di Fuorisalone è stata senza dubbio Alcova, il progetto ideato da Joseph Grima di Space Caviar e Valentina Ciuffi di Studio Vedèt nel quartiere di NoLo all’interno dei suggestivi spazi dell’ex fabbrica di panettoni Giovanni Cova & G, per la prima volta aperta al pubblico. Il format, tra designer emergenti, artisti, gallerie e istituzioni, ha raccolto un grande successo e l’anno successivo ha invaso anche gli spazi di via Sassetti, quartiere Isola. In vista dell’edizione di settembre, abbiamo incontrato Joseph e Valentina per provare a fare il punto nell’anno in cui le manifestazioni fisiche sono rimaste in stand-by e per avere qualche anticipazione sulla prossima edizione 2021.

Sin da subito Alcova si è distinta rispetto ad altre location del Fuorisalone: dall’ex-fabbrica di Panettoni Giovanni Cova & G alla Fabbrica Sassetti. Vi andrebbe di raccontarci come è nata l’idea del format?  E come è nata la volontà di restituire questi spazi alla città e ai cittadini?

Valentina Ciuffi: Attivare location che non sono note, aprirne per la prima volta le porte per noi è un aspetto centrale. L’esposizione, quando messa a confronto con spazi inediti, talvolta estremi come nel caso dell’ex sede di Giovanni Cova & G, invece che con i contenitori più classici tipo white cube può far scaturire qualcosa di efficace e stimolante per lo spettatore. Un altro aspetto per noi rilevante è quello della destinazione: Alcova non è un distretto ma un format che raduna, raccoglie, mette in scena sotto lo stesso cappello, in una dimensione di intimità, diverse realtà progettuali.

Joseph Grima: Il concetto di comunità internazionale di progettisti dediti all’innovazione e alla sperimentazione è fondamentale, a ogni livello: dalle realtà istituzionali fino ad arrivare al neolaureato. L’idea è di creare una destinazione ogni volta inedita, capace di sorprendere di continuo. Ci sono molti vantaggi nell’avere una base stabile, ma ci sono anche alcuni limiti. La nostra è tra le altre cose una scelta estetica, abbiamo una passione molto forte per quella che in inglese viene definita ruin porn, ovvero la pornografia delle rovine: troviamo molto più interessanti gli edifici abbandonati, racchiudono una bellezza ineffabile. Il Fuorisalone, la cui magia è data anche dalla durata temporale di sette giorni, ci permette di avere l’agilità per catturare l’unicità di questi luoghi e renderli accessibili, richiamandone una dimensione di memoria meno evidente. Alcova è la sintesi delle nostre esperienze, è senz’altro una formula diversa che per questo ha una sua forza espressiva.

Un’esperienza rilevante che vi ha portato a immaginare Alcova.

JG: Nei primi anni del Duemila, quando ero ancora studente, rimasi colpito da Hotel Droog: è stata una delle più grandi lezioni di architettura in un progetto ibrido che racchiudeva le dimensioni di teatro, configurazione degli spazi, esposizioni, curatela, museografia.

VC: “Wandering School” è un progetto tra design e performance che nel 2016 curai, tra gli altri, assieme al designer  Jerszy Seymour. Il progetto prevedeva il coinvolgimento di 30 studenti del Sandberg Institute di Amsterdam, che per un mese intero vissero negli spazi occupati di MACAO, animandoli quotidianamente con azioni diverse e al contempo ridisegnandoli. La situazione era per molti aspetti diversa da quella dell’ex-panettonificio, ma l’idea di spazio in cui ambientare un Fuorisalone inespettato era simile. Si può dire che io e Joseph ci siamo trovati su un territorio comune.

A proposito di relazione tra digitale e spazio fisico, che nell’ultimo anno a questa parte è stato messo in stand-by, come state vivendo la recente apertura del settore arredo e design all’online?

VC: Penso che siamo stati tutti colti di sorpresa dalla contingenza storica: c’è stata una corsa all’online che ha determinato in alcuni casi scelte spesso impulsive, non capaci di creare dei format che rendessero l’esperienza digitale piacevole e interessante in modo alternativo a quella reale. Con Alcova abbiamo scelto di fermaci a riflettere per comprendere come utilizzare al meglio i nuovi possibili strumenti: stiamo mettendo a punto una serie di soluzioni che saranno auspicabilmente complementari all’evento reale. Io credo che si debbano immaginare mostre online che ci permettano di allestire lo spazio digitale smettendo di considerarlo come la replica di quello fisico. In vista di settembre stiamo immaginiamo modi e forme di interazione inedite per comunicare da Alcova verso tutto il mondo, digitalmente.

Dal punto di vista della curatela, ricerca e design sperimentale sono due parole chiave che definiscono Alcova. Quanto se ne sente il bisogno nel panorama del Fuorisalone?

JG: Alcova non è un club esclusivamente dedicato al design emergente o alle aziende di alto livello. La formula, ormai collaudata, funziona bene perché mette in dialogo realtà molto diverse tra loro. Tendiamo a non avere un approccio strettamente curatoriale: Alcova è una rete social nel senso più letterale del termine, fatta di relazioni fra le persone. Nasce infatti dai nostri network di gruppi di lavoro e conoscenza, che si sono via via intrecciati e allargati. In una certa misura è successo quasi involontariamente, è stato un processo di crescita naturale.

E che benefici può trarre l’industria tradizionale del design scoprendo le edizioni limitate, i pezzi unici e i pezzi tra arte e design che Alcova propone?

JG: Dentro Alcova si respira un’atmosfera molto informale e si generano costantemente sinergie, ogni realtà beneficia della presenza dell’altra, che si tratti di un marchio established o di un designer emergente. In fin dei conti è una questione di forma mentis, è una visione del mondo più che una strategia di business. Un esempio particolarmente riuscito è quello di Ciam, un’azienda umbra che si occupa di refrigerazione su misura: ha scelto di inserirsi nel frame sperimentale di Alcova nel 2019 collaborando con Arabeschi di Latte.

VC: Avere a bordo un gruppo espositori così misto è un regalo per settori diversi del design: dai giovani designer alle aziende, dalle gallerie alle istituzioni museali. Un altro esempio che mi viene in mente è quello dei Morph, giovanissimi progettisti dell’Accademia di Eindhoven, che grazie ad Alcova sono entrati in contatto con curatori internazionali che li hanno portati a partecipare in un Festival francese e poi a fare una residenza a Shanghai oppure, grazie al mio lavoro curatoriale, ad esporre a Nilufar.

Siete tra i firmatari del Manifesto a supporto dell’edizione di settembre del Fuorisalone. Avete anche annunciato le date della nuova edizione di Alcova, in onda dal 5 al 12 settembre. Ci raccontate qualcosa di più?

JG: La prossima destinazione sarà un’ex area militare nel quartiere di Inganni, ormai inattiva dalla fine degli anni Novanta. È stata costruita in un periodo che va dall’inizio del secolo agli anni Trenta, è una specie di bosco urbano in cui sono dislocati diversi edifici tra cui uno spazio abitativo e una chiesa, perché ai tempi le infermiere erano suore. La casa comprende anche una cappella e un refettorio, caratterizzati da volumi meravigliosi. C’è qualcosa di onirico in questo luogo.

VC: C’è anche una lavanderia che era al servizio degli ordini religiosi e un edificio che abbiamo soprannominato tempio per le curiose fattezze architettoniche che richiamano alla lontana un tempo greco/romano. (Un po’ di paganesimo in questo insieme non guasta!) Saranno tre edifici in dialogo attorno a una piccola piazza. Il tutto straripante di verde – la vegetazione incontrollata è un altro un’altro fil rouge che collega le edizioni di Alcova. Ed del resto, data la contingenza, questo parco urbano consentirà di avere molte situazioni sociali e installazioni all’esterno.

Una domanda su Milano: quanto è importante per voi la presenza sul territorio e che ruolo gioca e giocherà dal punto di vista di attrattività la città, anche alla luce dell’emergenza sanitaria?

JG: Al di là dei grandi momenti di celebrazione, come stava avvenendo prima della pandemia, credo sia una città in rapido cambiamento. È un esempio di come una città piccola e densa possa essere l’alternativa alla mega metropoli. Penso che il Salone abbia un ruolo fondamentale che vada consolidato, deve crescere e lavorare forse in maniera diversa rispetto a come ha fatto fino a oggi, riconfermando il ruolo di preminenza internazionale. Al tempo stesso vedo un potenziale enorme nel Fuorisalone. Milano in quei giorni si trasforma in una città in festa, quasi un carnevale culturale: un modello difficilmente replicabile. Immagino una città che nei sette giorni diventi interamente pedonale, accogliente e capace di mostrare la bellezza dei suoi luoghi segreti al mondo.





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© Fuorisalone.it — Riproduzione riservata. — Pubblicato il 27 maggio 2021